VUOI IL MIO POSTO: PRENDI IL MIO HANDICAP

Alla base di ogni progetto di comunicazione c’è una narrazione soggiacente. Qualunque campagna pubblicitaria promette un oggetto di valore a cui si acconsente tramite l’acquisto. Se si acquista, si manifesta un’aderenza simbolica all’oggetto che si fa proprio. Questo vale dalla pasta integrale all’auto utilitaria, dal rubino allo scolapasta: ogni prodotto propone una narrazione che incarni una lettura sia in sede di generazione che in sede di consumazione.

C’è chi afferma (e non si nega che sia un precetto difficile da confutare) che il senso prenda forma narrativamente.

Ogni oggetto – dal design alla cover di un disco, dalla confezione di un abito alla realizzazione di un sofficino – presenta un discorso, fatto di frasi, punteggiature, allusioni simboliche, vuoti semantici da colmare, immaginari e nuclei di senso precisi ed efficaci.

Ogni discorsività narrativa prospetta un premio: se si sceglie una crema all’acido ialuronico, il messaggio presenterà una pelle lunare e splendente; se si compra una jeep, il proprio status sarà più ruspante e solido; se si acquista un disco di tarantelle, il proprio sound volgerà verso il locale e così via. Si prospetta un premio, una sanzione positiva. In questi casi la manipolazione pubblicitaria volge alla premialità. Niente di controverso.

Osserviamo la comunicazione del parcheggio Tanari a Bologna, atta a segnalare il divieto di occupare il posto-auto destinato alle persone disabili: “Vuoi il mio posto: prendi il mio handicap”. La manipolazione del progetto volge al negativo: si prospetta non una premialità ma un’intimidazione: se si prenderà (ed è implicito l’avverbio /indebitamente/) il posto, è il caso (un altro implicito) che il trasgressore debba accollarsi l’indebito handicap.

Ciò che stupisce non è l’originalità del messaggio che non si nega essere pervicace ma la struttura semantica con cui il messaggio viene arrangiato narrativamente.

Perché si possa essere civili, è necessaria la prospettazione di una sanzione in negativo, ciò che non vale per una bellissima crema all’acido ialuronico. Non si è mai vista una pubblicità in cui si comunichi una crema ringiovanente e si chieda al destinatario di usarla per evitare di essere solcati dalle rughe (Magari prospettando loro l’immagine di un uomo o una donna martoriati dalla vecchiaia).

Questo messaggio – per quanto intelligente –racconta rovinosamente altro: siamo ancora una società in cui per rispettare l’handicap e la disabilità è necessaria una comunicazione intimidatoria che sintetizza ancora arretratezza e mancanza di coscienza civica. Questo spiace e fa ancora tristezza.

Vuoi il mio posto? Sii più cortese a non prenderlo! Funzionerebbe? L’handicap in questa comunicazione viene usato come un deterrente, un qualcosa che in maniera grossolana è meglio evitare di accollarsi, un qualcosa di decisamente negativo che è meglio scegliere di non vilipendere con le proprie scelte: una condizione che – in verità e veramente – è meglio evitare. Che funzioni: non c’è dubbio! Ma il racconto pare ancora svelare uno scenario fortemente in bilico, è come se la buona condotta passi attraverso la prospettazione di un qualcosa di cattivo: peccato che nell’handicap non c’è nulla di sbagliato, disastroso o di irreparabilmente orribile quanto invece la stupidità di chi ha bisogno di essere minacciato per comportarsi civilmente e con coscienza: Vuoi il mio posto? Sii stupido fino in fondo!!! E allora ci mettiamo d’accordo…

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